Perchè si usano le metafore?

La parola metafora deriva dal greco meta,  che significa “sopra” e phorein, che significa “trasportare o portare da un posto all’altro”. La metafora porta oltre, trasporta il significato da un campo semantico ad un altro, sopperisce ad una deficienza lessicale estendendo il significato delle parole al di là del loro campo di applicabilità, tramite uno spostamento del significato universale, denotativo, a quello soggettivo, connotativo. (cit. “Giardinieri, principesse, porcospini. Metafore per l’evoluzione personale e professionale.” Consuelo Casula – FrancoAngeli editore.)

La metafora è una analogia tra due termini o due concetti, per esempio l’ondeggiare di un mare di spighe è una frase che ha al suo interno due metafore l’ondeggiare che è un termine che richiama all’onda del mare e fa quindi comprendere il movimento ondulatorio delle spighe, e il mare per rappresentare una grande distesa. 

La metafora può essere una storia, che si pone in analogia con possibili eventi della vita.

Lavora sull’inconscio, parla alle abilità creative, attiva le emozioni, le abilità spaziali ed immaginative. La metafora esprime messaggi che non entrano in dissonanza con le nostre convinzioni profonde ma smuovendo l’emotività avviano un processo di ricerca di senso, può attivare il desiderio di cambiare.

Per esempio potrebbe essere più facile per chi sta crescendo e si trova in una fase di passaggio per diventare adulto, o per chi deve fare i conti con un aumento dell’indipendenza e della libertà a pari passo con l’incremento di responsabilità e non è abituato o non riesce a vedere la responsabilità delle scelte, affrontare la situazione “ascoltandola” in una metafora.

Jorge Bucay in “Lascia che ti racconti” edito da Rizzoli racconta “La storia della pentola gravida”

Un pomeriggio, un uomo chiese in prestito al suo vicino una pentola. Il proprietario della pentola non era un tipo generoso, però si sentì in dovere di prestargliela. Dopo quattro giorni la pentola non era ancora stata restituita, per cui il proprietario, con la scusa che ne aveva bisogno, andò dal vicino per farsela restituire. «Guarda caso stavo per venire a casa sua a portargliela… Il parto è stato così difficile!» «Quale parto?» «Il parto della pentola.» «Cosa?» «Ah, non lo sapeva? La pentola era gravida.» «Gravida?» «Sì, e stanotte ha dato alla luce. Ecco perché ho dovuto tenerla a riposo, ma ora si è ripresa.» «Riposo?» «Sì. Un momento per favore.» E, rientrando in casa, tirò fuori una pentola, una piccola brocca e una padella. «Quella non è roba mia. Voglio soltanto la pentola.» «No, no, è roba sua. Sono le figlie della pentola. Se la pentola è sua, sono sue anche le figlie.» L’uomo pensò che il vicino fosse ammattito. «Be’, meglio non contraddirlo» disse fra sé. «Va bene, grazie.» «Di niente. Arrivederci.» E l’uomo se ne tornò a casa con la piccola brocca, la padella e la pentola.

Quella sera il vicino di casa bussò alla sua porta. «Vicino, mi potrebbe prestare un cacciavite e una pinza?» L’uomo adesso si sentiva più in dovere di prima. «Sì, certo.» Entrò in casa e uscì con la pinza e il cacciavite. Trascorse quasi una settimana e, quando stava pensando di andare a recuperare i suoi attrezzi, il vicino bussò alla porta. «Ah, vicino, lo sapeva?» «Che cosa?» «Il cacciavite e la pinza si sono messi insieme.» «Ma non mi dica!» esclamò l’uomo con gli occhi fuori dalle orbite. «Non lo sapevo.» «Guardi, è stata colpa mia. Li ho lasciati da soli per un momento e lei è rimasta incinta.» «La pinza?» «La pinza! Le ho portato i suoi figli.» 

E, aprendo un cestino, gli consegnò alcune viti, dadi e chiodi che, secondo lui, erano stati partoriti dalla pinza. «È matto come un cavallo» pensò l’uomo. Però i chiodi e le viti servivano sempre. 

L’anfora d’oro

Passarono due giorni. Il vicino scroccone si presentò di nuovo davanti alla porta. «L’altro giorno» gli disse «quando le ho riportato la pinza, mi sono accorto che lei tiene sul tavolo una bellissima anfora d’oro. Sarebbe così gentile da prestarmela per una sera?» Al proprietario dell’anfora luccicavano gli occhi. «Come no» disse generosamente. Entrò in casa e portò fuori l’anfora. «Grazie, vicino.» «Arrivederci.» «Arrivederci.» Passò quella notte, e anche la seguente, e il padrone dell’anfora non osava andare a casa del vicino per chiedergli di restituirla. Comunque, trascorsa una settimana, non poté resistere all’ansia e andò a reclamare l’anfora dal vicino. «L’anfora?» disse il vicino. «Ah! Non l’ha saputo?» «Che cosa?» «È morta di parto.» «Come sarebbe a dire è morta di parto?» «Sì, l’anfora era gravida e durante il parto è morta.»

«Ehi, ma mi prende in giro? Come fa a essere gravida un’anfora d’oro?»

«Senta, vicino. Lei ha accettato la gravidanza e il parto della pentola. Ha accettato anche il matrimonio e la prole del cacciavite e della pinza. Perché adesso non dovrebbe accettare la gravidanza e la morte dell’anfora?»

Bucay conclude con questa osservazione:

«Tu, puoi fare tutte le scelte che vuoi, ma non puoi renderti indipendente per gli aspetti che ti sono più facili e gradevoli e non quando ti costa fatica.

Il tuo giudizio, la tua libertà, l’indipendenza e l’aumento di responsabilità vanno di pari passo con il tuo processo di crescita. Sei tu che decidi se diventare adulto o continuare a essere un bambino.

Ecco l’esempio di una metafora, che racconta di qualcosa senza andare dritti al punto, perchè talvolta l’altro non è pronto a confrontarsi con il punto in questione.

La prossima volta che sentite una favola provate a chiedervi cosa dice alla vostra vita e come mai.

Approfondimento a cura di

Damiano Quarantotto

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